Warning: Attempt to read property "post_excerpt" on null in /home/mhd-01/www.salentometropoli.it/htdocs/wp-content/themes/morenews/single.php on line 53
La vittoria del Sì creerebbe disoccupazione?
I numeri sui posti di lavoro che verrebbero persi sono in realtà molto altalenanti e incerti. Industriali e Governo parlano di migliaia o addirittura decine di migliaia di posti di lavoro che andrebbero in fumo. Il ricatto occupazionale è un’arma che viene spesso usata dai vari governi, tranne quando si tratta di tagliare nella pubblica amministrazione e quando le grosse aziende trasferiscono all’estero la produzione dopo aver goduto di finanziamenti pubblici.
In realtà la perdita occupazionale è stata ridimensionata rispetto a quanto urlato agli albori. Secondo Giorgio Zampetti, di Legambiente, considerando l’indotto, sarebbe al massimo di circa tremila persone. Secondo il sindacato dei lavoratori Cgil Fiom, invece, sarebbero meno di cento. Molte piattaforme, infatti, sono deserte e vengono controlla da remoto.
Inoltre nell’immediato non ci sarebbe alcun licenziamento, poiché – come ricordato – il referendum non ferma le concessione già rilasciate, ma ne impedisce la durata illimitata. Quindi le piattaforme verranno chiuse alla scadenza delle rispettive concessioni. La chiusura avverrebbe tra il 2017 e il 2034. Quindi questi presunti effetti negativi sulla disoccupazione si produrrebbero nell’arco di 17 anni. E quanto inciderebbe sul tasso di disoccupazione generale? Quasi nulla.
[tagpress_ad_marcello]
E’ stato inoltre rilevato che alla cessazione dell’attività di estrazione seguono quelle relative alla chiusura dei pozzi e allo smantellamento delle infrastrutture, che richiede impiego di un numero di lavoratori ben maggiore rispetto a quelli attualmente occupati nelle piattaforme.
Inquinano le piattaforme? Sono pericolose?
I sostenitori del No e dell’astensionismo sostengono che non ci sia stato mai un incidente, che l’attività estrattiva non è inquinante e che la maggior parte delle concessioni interessate dal referendum estraggono gas, non petrolio. E lo dicono evidentemente senza cognizione di causa oppure facendo leva su alcuni luoghi comuni.
Innanzitutto non è vero che non ci siano stati mai incidenti. Senza citare gli incidenti occorsi all’estero, nel 1965, al largo del ravennate, esplose la piattaforma per l’estrazione di metano denominata “Paguro”. Morirono annegati tre tecnici dell’Agip. L’esplosione creò un cratere centrale profondo 33 metri. Occorsero tre mesi prima di fermare l’eruzione di gas, che raggiungeva 30 metri sul livello del mare.
Le fuoriuscite di gas sono tutt’altro che innocue. Oltre ad essere incombente il rischio di esplosioni, il gas non bruciato che si disperde nell’ambiente è più inquinante della combustione di carbone o idrocarburi.
Le piattaforme inquinano, scaricano a mare acque industriali. Lunedì 11 aprile “Piazza Pulita” (La7) ha mandato in onda un filmato esclusivo girato da due sub al largo di Fano che documentava questi scarichi continui.
Dopo la notizia il Sindaco di Fano Massimo Seri ha chiesto chiarimenti al Ministro dell’Ambiente.
Secondo le analisi dell’Ispra su campioni di cozze prelevati nelle vicinanze delle piattaforme dell’Eni, i molluschi conterrebbero metalli pesanti e idrocarburi in quantità molto superiori rispetto ai limiti di tollerabilità. E magari quelle cozze ce le ritroviamo nel piatto.
Inoltre un eventuale incidente rilevante, ancorché siano basse le probabilità, con fuoriuscita di idrocarburi, potrebbe causare un disastro ambientale gravissimo, accentuato dal fatto che il Mare Adriatico è un mare chiuso.
Metà delle piattaforme non sottoposte a valutazione d’impatto ambientale (VIA).
Sempre secondo Wwf, sulla base dei dati del Ministero, ben 42 piattaforme su 88, sono state realizzate prima dell’entrata in vigore della procedura di valutazione di impatto ambientale, istituita con legge dell’86.
Quasi la metà di queste piattaforme è ferma o per manutenzione o perché ha cessato l’estrazione.
Per molte di queste piattaforme incombe il rischio di incidenti dovuto cedimento strutturale dovuto, come riconosciuto dal Regolamento UE sulla sicurezza delle piattaforme in mare emanato nel 2011.
Alessandro Giannì, di Greenpeace, sospetta che le proroghe alla durata delle concessioni serva alle compagnie a procrastinare il momento in cui le piattaforme obsolete vanno smantellate, operazione che è a carico delle compagnie.
A che prezzo?
Le royalty, cioè i diritti pagati allo Stato e alle Regioni da parte delle compagnie per lo sfruttamento degli idrocarburi, nel nostro Paese sono ridicole, appena il 7% del valore (al netto delle deduzioni) del petrolio estratto in mare. Percentuale che sale al 10% per il petrolio estratto su terra ferma e per il gas. Le prime 50 mila tonnellate di petrolio e i primi 80 mila metri cubi di gas estratti in mare sono esenti da offshore.
Nel 2015 in totale le royalty versate per tutte le concessioni (comprese quelle in mare entro le 12 miglia quelle su terraferma) ammonterebbero a circa 350 milioni. Poco più del debito di FSE. Wwf ha osservato – sulla base dei dati del Ministero dello Sviluppo economico – che per le estrazioni in mare solo il 21% delle compagnie paga le royalty. Percentuale che scende al 16,5% per le estrazioni a terra. Le compagnie sarebbero quindi interessate a tenere in vita pozzi da cui si estrae una quantità tale di idrocarburi che permetta di mantenersi sotto la soglia del “no royalty”.
Se tutte le compagnie di estrazione pagano in un anno appena 350 milioni, a quanto ammonterebbero le royalty che si ricaverebbero dalle concessioni interessate dal referendum?
E a quanto ammonterebbero i danni ambientali prodotti e quelli che eventualmente conseguirebbero ad un possibile incidente rilevante?
Per il Governo il petrolio è strategico? Ma per chi?
Il petrolio del mondo è in esaurimento ed è alla base di sanguinose e durature guerre e dell’inquinamento locale e globale. Dal vertice Cop21 è sono emerse chiare e perentorie indicazioni, sull’immediato processo di abbandono delle fonti fossili, favorendo quelle rinnovabili. Il nostro Paese è come al solito in controtendenza, taglia i finanziamenti sulle rinnovabili e puntata tutto sul fossile.