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Il Presidente dell’ANM Piercamillo Davigo, ospite a Lecce, ha parlato dell’importanza delle regole e fatto il punto sui rapporti tra corruzione e politica e sui mali della giustizia.
Nell’Aula magna del Tribunale di Lecce gremita di studenti del liceo, universitari, giuristi e cittadini comuni, si è tenuto stamattina l’incontro con Piercamillo Davigo, esperto magistrato, attuale presidente dell’Associazione nazionale magistrati (ANM).
L’incontro è stato organizzato dall’associazione Vittorio Bachelet di Taviano e da Tenemos Recinti Teatrali, con la collaborazione dell’ANM, nell’ambito del progetto WE Legality.
Il magistrato è stato accolto anche da un gruppo di cittadini che per l’occasione aveva preparato degli striscioni di solidarietà per gli attacchi che aveva ricevuto nelle settimane scorse, a seguito delle dure parole pronunciate contro i politici corrotti.
Davigo, intervenuto sul tema “Oltre la coruruzione: il ruolo della magistratura”, ha parlato non solo di politica e corruzione, ma anche dei problemi della giustizia ed in particolar modo della lentezza dei processi e di quelle che, a suo parere, dovrebbero essere le riforme da varare.
Quella di Davigo è stata una vera e propria lectio magistralis, spiegata con parole semplici e immediate, ed ha sottolineato innanzitutto l’importanza delle regole per una società e l’importanza che queste regole vengano osservate.
Per quanto riguarda la lentezza tanto della giustizia civile, quanto di quella penale, ha dichiarato che il problema spesso viene scaricato sui magistrati, mentre le cause sarebbero da ricollegare ad un macchina che è ingolfata da un numero abnorme di procedimenti giudiziari, favorito dalla normativa vigente.
Davigo ricorre ad una metafora per spiegare questo aspetto, che è quello di un’automobile performante, che potrebbe raggiungere alte velocità, ma che si trova in mezzo ad un ingorgo. Se l’auto va lenta non dipende dall’auto, ma dal traffico congestionato che non le permette di viaggiare veloce.
Il magistrato spiega, quindi, quali sono alcune delle cause di questo “ingorgo” giudiziario.
Per quanto riguarda il processo civile, ci sarebbero troppe cause iniziate ogni anno, in un numero esageratamente superiore rispetto ad altri Paesi europei. E questo perché molti attori privati, pur sapendo di aver torto, si ostinano a non voler adempiere. Perché lo fanno?
Sfruttando a loro favore le lungaggini processuali, sperando con questo comportamento di strappare un accordo al ribasso: chi ha ragione preferirà desistere oppure accontentarsi di poco e subito, piuttosto che stare anni dietro ad un processo che chissà quando avrà fine.
Davigo ricorda poi che tanto nel processo civile, quanto nel processo penale, negli altri Paesi europei le impugnazioni delle sentenze di primo grado sono molto rare. In Italia invece sono troppi i processi che vanno oltre il giudizio di di primo grado. I processi penali il più delle volte finiscono solo con la sentenza della Corte di Cassazione.
Tutto questo accade, secondo il magistrato, a causa del “divieto di reformatio in peius”, secondo il quale, il soggetto che propone appello o ricorso in cassazione contro una sentenza non potrà subire una sentenza peggiorativa rispetto alla condanna inferta da quella impugnata. In mancanza di questo divieto, un soggetto, nel momento in cui decide di opporsi a una sentenza, si assumerebbe anche il rischio di subire una condanna peggiore.
In altri Paesi, come ad esempio la Francia, il divieto di reformatio in peius non è previsto.
Nel processo penale, l’imputato ha anche due motivi in più per impugnare una sentenza. La prima è che la pena resta sospesa fino a quando il giudizio non diventa definitivo. Un giudizio diventa definitivo con la sentenza della Cassazione oppure con il decorso dei termini previsti per impugnare la sentenza. Quindi impugnare la sentenza è un modo per rinviare l’esecuzione della pena.
In secondo luogo, impugnare una sentenza è un modo per perdere tempo cercando di raggiungere il termine per la prescrizione del reato, quindi l’impunità per il solo decorrere del tempo.
Secondo Davigo un altro problema del sistema giudiziario italiano è rappresentato dalla perdita della funzione “nomofilattica” della Corte di Cassazione, ossia quella funzione che ha l’obiettivo di assicurare l’interpretazione uniforme, quella di dare delle indicazioni a tutti i giudici sul modo di interpretare norme e casi. Invece si assiste ad una frammentazione causata dai vari ’orientamenti seguito dalle varie Sezioni della Corte.
E ciò accadrebbe talvolta in modo consapevole, altre volte in modo inconsapevole. Il magistrato non è critico nelle ipotesi in cui si seguano orientamenti diversi in modo consapevole, perché farebbe parte della normale dialettica giuridica; e questi diversi orientamenti verrebbero poi composti da una decisione a Sezioni unite della stessa Corte di Cassazione. Il problema sorgerebbe quando si verifica la seconda ipotesi, quando una o più Sezioni seguono inconsapevolmente indirizzi diversi, creando frammentarietà e quindi incertezza nel diritto.
Davigo parla anche della proposta di ridurre le ferie dei magistrati, giudicandolo come un falso problema. Ricorda che anche i marescialli dei carabinieri hanno lo stesso numero di giorni di ferie ogni anno, eppure nessuno sostiene che i problemi della sicurezza e dell’ordine pubblico siano legati alle ferie dei marescialli.
Anzi, Davigo sostiene che i magistrati italiani lavorino più dei colleghi di Francia e Germania. Afferma che se dovesse proporre una forma di protesta, non proporrebbe di fare uno sciopero, ma di lavorare quanto i colleghi tedeschi.
Infine Davigo conclude raccontando una serie di aneddoti, con i quali sottolinea l’importanza che ognuno di noi svolga correttamente la propria funzione nella società, qualunque essa sia: “Se ognuno fa il suo, il mondo sarà migliore”.
Articolo pubblicato originariamente su TagPress.it