La guerra richiede una strategia di comunicazione mirata, che porti a coprire i reali obiettivi, a descrivere una minaccia e a convincere il popolo e i soggetti esterni della sua necessità.
Da quando esiste l’uomo esiste la guerra. Cambiano i popoli, cambia la tecnologia bellica, cambiano le morali e le giustificazioni, ma ci sono delle costanti che si ripetono in ogni guerra.
Un obiettivo reale e una causa legittimante
Lo scopo di ogni guerra è prettamente economico o strategico. Si muove guerra per espandere il dominio territoriale, per controllarne e sfruttarne le risorse, per espandere il mercato, per sottomettere un popolo e sfruttarlo o anche per avere un controllo strategico o strumentale rispetto al territorio circostante. Non è mai, realmente, per il bene dell’umanità, per volere di un dio (ammesso che esista), per aiutare un popolo, per vivere in sicurezza.
Ma ogni stato belligerante, per giustificare il sacrificio necessario dei propri soldati, così come l’eccidio di persone e soldati appartenenti al popolo nemico, nonché per legittimare l‘attacco ad un altro popolo, ha bisogno di trovare un argomento di comodo, che addolcisca la pillola, nobiliti la causa, sia convincente per l’opinione pubblica e per evitare l’accusa di violazione del diritto internazionale.
Così un conflitto si fa in nome dei diritti, della democrazia, della lotta al terrorismo, dell’evangelizzazione o della conversione degli infedeli, della civilizzazione dei selvaggi, della lotta al terrorismo, della sicurezza interna. Muovendosi nello spazio e nel tempo cambia anche la strategia di legittimazione. Ma i reali motivi sono altri e non sempre coincidono con l’interesse pubblico. Anzi, quasi sempre a spingere o a determinare la decisione sono interessi privati appartenenti a gruppi di pressione, a soggetti in grado di influenzare in maniera decisiva l’attività decisionale degli organi politici.
La comunicazione di guerra
Le guerre portano morti e sono devastanti dal punto di vista sociale ed economico e a pagarne le conseguenze sono i popoli e i soldati, mentre a guadagnarci sono quei soggetti in grado di condizionare le volontà politiche.
Occorre quindi saper comunicare al popolo, richiamare la gente all’unità nazionale, al senso di responsabilità e allo spirito di patria, convincendoli che la guerra è giusta e necessaria, perché dall’altra parte c’è un nemico che minaccia la sicurezza di ognuno e che tutti devono dare il loro contributo.
Normalmente viene descritta una minaccia, reale o semplicemente narrata, che porti la gente ad avere paura e riconoscere la necessità di intervenire.
La comunicazione è un aut-aut: o si interviene nei modi raccontati dal governo oppure le conseguenze saranno disastrose. Non c’è spazio di dialogo o riflessione, serve compattezza, unità nazionale, spirito di sacrificio e di responsabilità. Che altro non significa se non aderire fedelmente alla linea del governo e obbedire.
Viceversa, coloro che mettono in dubbio i propositi del governo e le premesse che giustificherebbero l’azione militare, sono additati come nemici del popolo, accusati essere irresponsabili e di fare il gioco del nemico, indicati come responsabili delle conseguenze negative che potenzialmente (o teoricamente) potrebbero verificarsi.
In altre parole, se le conseguenze della guerra sono drammatiche e devastanti, l’importante è trovare un colpevole, un capro espiatorio a cui addossare tutta la responsabilità dell’accaduto.
Si tenta, quindi, di dividere la popolazione tra buoni cittadini e nemici del popolo, aizzando gli uni contro gli altri. La comunicazione è una forma di esercizio del potere, la più pervasiva.
La paura e la rabbia, alimentati con sapienza attraverso una comunicazione studiata e mirata, sono i sentimenti su cui il governo belligerante fa leva per convincere e guidare i propri governati (o sudditi). La paura porta a cedere le proprie certezze, parte della propria libertà e dei propri diritti, e a delegare potere a favore di chi offre una soluzione, pur di far cessare il pericolo. Proprio come farebbe un soggetto rapinato o sotto sequestro. La rabbia, se ben orientata, porta la popolazione a chiedere misure dure e porta a giustificare la recrudescenza nell’esercizio del potere.
L’esasperazione di queste emozioni porta inevitabilmente ad essere meno razionali e più impulsivi e ad agire più di pancia.
Il necessario sacrificio umano
Non esistono guerre senza morti. Si accetta che qualcuno dovrà morire per la causa, sia civili che militari.
La retorica militare esalta il sacrificio della vita e il martirio dei propri soldati, mentre i civili che muoiono a causa della guerra sono definiti “vittime collaterali”, vittime non volute ma inevitabili. In realtà è noto che le vittime tra i civili possono essere anche decisive per gli esiti di una guerra, per cui non si può escludere in realtà che siano volute e non siano meri “effetti collaterali” degli attacchi.
Gli attacchi sulla popolazione civile destabilizzano e instillano panico e incertezza nella società. E’ questa, infatti, l’essenza dell’attacco terroristico: destabilizzare per portare la società alla disgregazione, al suo cedimento, ma anche per poter ricostruirla secondo il disegno del conquistatore.
E in guerra si fa ampiamente ricorso alla strategia terroristica, sia nelle azioni militari, sia nella comunicazione.