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SaluteSalento.it ha intervistato il ricercatore dell’Isac Daniele Contini sui fattori responsabili del superamento delle soglie di Pm10 nella provincia di Lecce.
La provincia di Lecce, secondo i dati del CNR, registra diversi sforamenti delle soglie di tollerabilità della concentrazione di PM10.
I PM10 rappresentano una frazione di quel complesso di nanoparticelle denominato particolato, molto temuto per la salute.
Sono 10 mila volte più piccoli di un millimetro e sono composti da fumo, polvere e sostanze liquide (aerosol). La loro presenza in atmosfera è dovuta a incendi, combustione, usura di organi meccanici, consumo di asfalto, processi di produzione, ma anche fenomeni naturali, quali l’erosione del suolo, l’eruzione di vulcani, il sale marino, la diffusione dei pollini.
L’alta concentrazione di PM10 è considerata come causa probabile di tumori. Inoltre favorisce l’insorgenza di malattie alle vie respiratorie, come asma e bronchite.
Secondo le “Analisi dei risultati dei rilevamenti di Pm10 e Pm2,5 e del loro contenuto di metalli in diversi siti della provincia di Lecce”, condotte da Cnr-Isac, relativamente al periodo compreso tra il 2003 e il 2010, figurano come responsabili anche le polveri del deserto, gli aereosol marini, le biomasse e il traffico.
Nella ricerca sono stati utilizzati 483 campioni di Pm10 e 154 campioni di Pm2,5 raccolti in 15 siti di misura, i quali hanno evidenziato concentrazioni di cadmio, piombo, e cromo piu alte nei siti industriali, con correlazione nichel-cromo associata; nei siti urbani si è osservata la correlazione rame-antimonio, associata al traffico.
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Salute Salento www.salutesalento.it ha intervistato Daniele Contini, primo ricercatore e responsabile nella sezione leccese dell’Isac (Istituto di scienze dell’atmosfera e del clima) del CNR.
«Nelle polveri del Pm 10 sono numerosi i contributi. Fra questi il traffico, gli aerosol marini, la sabbia del Sahara, le biomasse. Non solo le emissioni delle centrali».
Il governatore Emiliano ha detto che «per chiedere la riconversione a gas delle centrali di Cerano e dell’Ilva» ha bisogno del supporto dei dati scientifici. Con le analisi sulle ricadute al suolo si riesce ad indentificare le sorgenti?
«Tecnicamente si può fare. Qualcosa l’abbiamo fatta anche noi sul versante di Lecce, quando abbiamo operato su Brindisi. Ma farlo in una maniera dettagliata richiede uno sforzo notevole, soldi e tempo. Soprattutto l’analisi su periodi lunghi».
A parte i costi, si arriverebbe a dei risultati certi?
«Parliamo di analisi scientifiche che rispettano le normative. Ma quando si devono interpretare le tabelle dei risultati e quindi a studiarne gli effetti al suolo diventa complicato perché qualsiasi avvocato escluderebbe che quel contributo in metalli pesanti, in zolfo o in composti organici, sia da imputare alle aziende dei suoi assistiti».
Quali sono i contributi più dannosi e tossici?
«Gli elementi più tossici possono essere legati ai metalli pesanti o ad alcuni composti organici, come diossine e furani, derivanti da processi produttivi. Questo va approfondito però con degli studi specifici.
Ma anche gli effetti delle polveri del deserto non sarebbero molto lontani da quelli di Cerano. In un territorio come il nostro il contributo del Pm10 di Cerano è del 3-4%. Il rimanente 96% viene da altre parti: 4-5% dal Sahara, il 5-6% dal mare e poi la combustione, il traffico veicolare, le biomasse.. Quello che è importante è l’effetto cumulativo sulla salute».
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