Dopo aver inserito l'”intesa forte” Stato-Regioni sulle attività petrolifere, per evitare i referendum contro le trivelle, il Governo se la riprende. Così arriva il via libera all’iter dei lavori a Taranto per il Tempa Rossa e alle altre autorizzazioni per ricerca ed estrazione degli idrocarburi.
Ricordate i 6 quesiti referendari contro le trivelle del 2016?
Cinque di quei quesiti non furono ammessi perché il Governo Renzi si affrettò a far approvare un maxi–emendamento alla Legge di Bilancio 2016, con il quale furono modificate quelle norme (la maggior parte contenute nello Sblocca-Italia) che i promotori dei referendum sulle trivelle volevano abrogare.
Di conseguenza la Consulta giudicò ammissibile solo 1 quesito su 6, poiché non è possibile abrogare delle norme che nel frattempo sono state modificate o eliminate.
Quell’unico referendum , per il quale i cittadini votarono a marzo 2016, poi, non raggiunse il quorum e la norma rimase in vigore.
Ma la questione non finì lì e ciò che uscì dalla porta sembrerebbe, almeno in parte, essere rientrato dalla finestra, con una modifica della legge sul procedimento amministrativo (Legge n. 241/90) adottata dal Governo Renzi a giugno 2016, che ha depotenziato il ruolo delle Regioni nell’ambito delle autorizzazioni sulle attività petrolifere.
Andiamo a ritroso. Sul finire dello scorso anno, tra gli ultimi atti in favore dell’industria fossile del Governo Gentiloni, in continuità con la linea del precedente Governo guidato da Renzi, c’è stato il rilascio dell’autorizzazione che consentirà a ENI di procedere con l’adeguamento delle strutture logistiche della raffineria di Taranto, nonostante la mancata intesa con la Regione Puglia.
E lo ha potuto fare grazie una modifica dell’articolo 14 quater della Legge 241/90 (legge sul procedimento amministrativo), avvenuta tramite il Decreto legislativo n. 127 del 30 giugno 2016.
Questo decreto è stato emanato su delega del Parlamento (contenuta nella legge delega n. 124 del 7 agosto 2015) data al Governo per la semplificazione della normativa sulla conferenza di servizi tra enti pubblici, ma che, più che semplificare, ha indebolito il ruolo delle Regione riprendendosi ciò che era stato dato per evitare i referendum.
Che cosa significa?
L’operazione del Governo assomiglia un po’ al gioco delle tre carte. Per superare i quesiti referendari, con la Legge di Stabilità aveva fatto approvare il maxi-emendamento che modificava la materia dei referendum. Questo poteva sembra un dietrofront, una vittoria per i No TRIV e per le dieci Regioni che avevano promosso i referendum contro le trivelle, ma si è rivelata una vittoria di Pirro.
Con la stessa legge era stato previsto che per determinate attività delle compagnie petrolifere occorreva un’intesa “forte” tra Stato e Regioni. In pratica la procedura prevedeva che in caso di mancanza di un accordo entro i termini, occorresse passare ad una trattativa Governo-Regioni, per giungere ad una soluzione politica.
Ma a giugno 2016 l’intesa forte è stata cancellata.
Tempa Rossa: a Taranto i primi effetti di questa modifica
I risultati di questo intervento del Governo si possono vedere nell’ambito dell’iter autorizzativo dei lavori di adeguamento del porto di Taranto necessari ad accogliere il petrolio proveniente dal giacimento Tempa Rossa, in Basilicata. Sono circa 50mila barili di greggio al giorno che arriverebbero a Taranto.
Con la Regione Puglia è stata trovata l’intesa ed allora il Presidente Gentiloni ha proposto al Consiglio dei Ministri di superare il mancato accordo adottando un’apposita delibera.
Quindi il Governo ha approvato, lo scorso 22 dicembre, l’autorizzazione a favore di ENI.
Il Potere Esecutivo ha così giocato un tiro mancino alle Regioni, probabilmente violando un principio di diritto costituzionale.
Ma di questa norma che modifica il l’articolo 14 quater della Legge 241 non è solo l’ENI con Tempa Rossa a beneficiarne, ma qualsiasi compagnia di ricerca, estrazione, trasporto, stoccaggio o trasformazione di idrocarburi su suolo italiano, dal momento che lo Stato potrà superare facilmente le mancate intese con le Regioni.
A ciò si aggiungano i benefici fiscali riconosciuti per chi svolge attività petrolifere, tali da rendere il nostro Paese come una sorta di paradiso fiscale per petrolieri.
In Italia le royalty (le percentuali che le compagnie di estrazione devono pagare allo Stato) sono appena del 7% (il più basso valore al mondo) per il petrolio estratto in mare e del 10% quello estratto sulla terra ferma, mentr in Norvegia salgono al 78%, in Canada il 45%, in Gran Bretagna dal 32 al 50%.
I costi di ricerca del petrolio ammontano a circa 5-6 euro al chilometro quadrato, mentre la media mondiale è di circa 100 euro.