Il modo migliore di onorare la figura di Giovanni Falcone e di chi è morto combattendo la mafia sarebbe quella di seguire il loro percorso, ma tra commemorazioni e retorica si smantellano pezzo dopo pezzo gli strumenti della lotta alla mafia.
Oggi ricorre il 26esimo anniversario della Strage di Capaci, in cui persero la vita il magistrato antimafia Giovanni Falcone, la moglie, anche lei magistrato, Francesca Morvillo, il capo della scorta Antonio Montinaro, originario di Calimera, i colleghi Rocco Dicillo, originario di Triggiano (Bari), e Vito Schifani, di Palermo.
A parte coloro che andranno a sputare sul monumento di quel “fango di Falcone” (compreso qualche bravo calciatore di un passato recente), le commemorazioni ufficiali e la retorica di circostanza circoleranno a fiumi, ma come spesso accade quando nasce un’idolatria, quando i personaggi vengono mitizzati o semplicemente quando un rituale va fatto perché sembra brutto non farlo, viene perso proprio il valore dell’operato e la coscienza degli ostacoli affrontati dal personaggio commemorato.
Cosa rimane dell’eredità di Falcone, Borsellino e gli altri, di quel metodo rivoluzionario di combattere la mafia, quella vera, non quella stereotipata delle fiction televisive, del cosiddetto “Metodo Falcone”, che rappresenta un capolavoro tra i protocolli investigativi contro le organizzazioni mafiose?
Volutamente o involontariamente, diverse forze politiche stanno cercando di demolire pezzo dopo pezzo quelle misure volute proprio da Giovanni Falcone, indicate come indispensabili per sconfiggere un fenomeno criminale diverso da tutti gli altri, che si insinua e si nasconde nelle strutture sociali, politiche, istituzionali, condizionandone le scelte e il modo di operare, che si comporta come uno stato nello stato e proprio per questo è più pericoloso e richiede misure straordinarie, diverse da quelle utilizzate per la criminalità comune.
Quando una mafia è radicata è come se in atto ci fosse una guerra fortemente strategica tra due soggetti che condividono lo stesso territorio e bisogna decidere se combattere o se arrendersi all’aggressore.
Uno degli strumenti più importanti, ma anche più contestati da più parti, è la misura del carcere duro, il cosiddetto 41 bis, previsto per i boss della mafia e voluto non per finalità punitive, ma per impedire che i boss in carcere continuino a guidare l’organizzazione da dentro al carcere.
L’abolizione del 41 bis è uno dei punti che rientra in quella che va sotto il nome di Trattativa Stato – mafia, con la quale l’organizzazione Cosa nostra ha chiesto allo Stato l’adozione di una serie di leggi e misure tra cui, oltre all’abolizione del carcere duro, anche la revisione delle leggi sui collaboratori di giustizia (“pentiti”), sulla confisca dei beni alla mafia.
Cos’è il 41 bis?
Il regime di carcere duro, il 41 bis, fu introdotto la prima volta con la legge Gozzini, che modificò l’ordinamento penitenziario, come misura contro le rivolte e gravi situazioni d’emergenza nelle carceri. Dopo la Strage di Capaci fu reintrodotto con il Decreto legge antimafia Martelli-Scotti, applicabile ai boss mafiosi e, almeno inizialmente, avrebbe dovuto avere carattere temporaneo, per combattere l’emergenza stragista e sovversiva della mafia.
Ma il 41 bis fu più volte prorogato, per poi essere “stabilizzato” ed esteso anche ai condannati o sospettati di terrorismo ed eversione con la legge n. 279 del 23 dicembre 2002, poi modificata con la legge n. 94 del 15 luglio 2009 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica).
La normativa attuale prevede che prevede che il Ministro della Giustizia possa, in caso di gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica, disporre questa misura, della durata non inferiore ad un anno e non superiore a quattro, salvo successive proroghe di due anni ciascuna.
E’ concesso ai detenuti sottoposti a questa misura di poter incontrare senza vetro divisore i parenti di primo grado inferiori a 12 anni di età (i familiari stretti).
Questi detenuti speciali non possono avere libri e giornali, tranne casi particolari e autorizzati, sono posti in isolamento, alloggiano in una camera singola, non hanno accesso agli spazi comuni del carcere, l'”ora d’aria” (in realtà 2 ore al giorno) avviene in isolamento con massimo quattro detenuti, sono sottoposti a sorveglianza costante da un reparto speciale che non entra in contatto con la polizia penitenziaria ordinaria; i loro colloqui con i familiari sono limitati, la corrispondenza in entrata e in uscita è sottoposta a visto ed è limitato l’uso somme e oggetti che possono essere ricevuti dall’esterno.
Diversi organismi hanno condannato questo tipo di trattamento penitenziario, tra cui Amnesty International, che ha definito il 41 bis ‘crudele, inumano e degradante’. Diversi esponenti di Forza Italia, del PD e di altri forze politiche ne hanno proposto l’abolizione e anche il nuovo Movimento politico di sinistra, Potere al Popolo, ha aderito a questa posizione.
La normativa è stata sottoposta più volte al vaglio della Corte di Cassazione e della Corte Costituzionale, che hanno confermato la legittimità della normativa, pur intervenendo – soprattutto la Consulta – per dare delle indicazioni interpretative rispettose dei principi costituzionali.
Bisogna considerare il contesto in cui nasce l’esigenza di prevedere questo speciale trattamento per questi soggetti, di grave pericolosità sociale del singolo e dell’organizzazione di cui fa parte. L’obiettivo è quello di ostacolare le comunicazioni con l’organizzazione e con altri affiliati all’interno del carcere e per evitare situazioni di pericolo dovute al contatto con esponenti di organizzazioni rivali, dentro e fuori dal carcere.
Il 41 bis non rappresenta una pena esemplare, un retaggio delle punizioni medievali, ma è uno strumento studiato scientificamente da chi la mafia l’ha conosciuta profondamente, come Giovanni Falcone, Antonino Caponnetto, Paolo Borsellino, nella consapevolezza del radicamento e della pericolosità del nemico, che minaccia la sicurezza, l’ordine pubblico, le attività delle istituzioni, la stessa esistenza dello Stato e che non può essere combattuto solo con gli strumenti ordinari.
Il carcere duro rappresenta comunque una misura temporanea, anche se prorogabile. Il mafioso che vi è sottoposto può decidere di collaborare con la giustizia, tagliare con il passato e liberarsi da questo trattamento penitenziario. La legge stabilisce che questa misura viene applicata per la ‘necessità di ripristinare l’ordine e la sicurezza e ha la durata strettamente necessaria al conseguimento del fine suddetto’.
Che senso ha onorare Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e proporre l’abolizione del 41 bis?
I magistrati, i poliziotti, i carabinieri uccisi dalla mafia hanno lasciato una loro eredità nel metodo e onorarli significa continuare il loro percorso e invece, se da un lato si ricorda il loro martirio, dall’altro c’è chi cerca di depotenziare o abolire quegli strumenti che per il pool antimafia di Palermo rappresentavano dei capisaldi e che tanto sono osteggiati dalle organizzazioni mafiose.
Le varie proposte politiche di abolire o rivedere il 41 bis, così come la legge sulla confisca dei beni ai mafiosi, la legge sui pentiti, il reato di concorso esterno in associazione mafiosa vanno proprio nella direzione opposta rispetto alla strada indicata da Falcone, Borsellino e gli altri.
A difendere questi strumenti sono i magistrati antimafia e le associazioni delle vittime e per le la lotta alle mafie, i quali sostengono chiaramente che in caso di abolizione o depotenziamento di questo strumento si farebbe un favore alla mafia.
In questo clima di contestazione sociale verso il 41 bis, sostenuta anche da diversi media, con una legge che restringe sempre di più la possibilità di ricorrervi, i magistrati di sorveglianza si sentono più che legittimati nell’accogliere i numerosi ricorsi presentati dai mafiosi con cui si chiede la revoca del carcere duro e così i boss tornano a casa grazie a permessi speciali, dove ricevono, oltre ai parenti, anche le visite di affiliati e persone estranee alla normale rete di parenti e amicizie, continuando ad esercitare tutto il loro potere.
Come se non bastasse, alcuni pentiti hanno rivelato che, anche se sottoposti al 41 bis, i boss riuscirebbero a comunicare con l’esterno, attraverso le grate delle celle, tramite la consegna di pizzini o anche sussurrando dei messaggi in codice ai familiari in visita. Talvolta sarebbero gli stessi secondini a fare da “corrieri”.
Di fatto è stato in buona parte svuotato il senso originario del 41 bis, mentre i fumi e le polveri di quelle stragi sono ormai lontani ricordi, i magistrati morti sono solo delle icone di cui si sa poco, le loro commemorazioni sono un rituale come la Santa Messa la domenica mattina, e quelle pagine sporche di sangue sembrano ormai archiviate. Tutto è cambiato e tutto è rimasto uguale, la mafia ha acquisito ancora più potere, tanto che la ‘ndrangheta è oggi la mafia più potente al mondo.