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Ci credevano i promotori del referendum contro le trivelle. Il mare lo amano tutti, avrebbero sentito tutti la chiamata. Invece a mare gli italiani ci sono andati. Alle urne per rendergli un favore no.
A vincere, ancora una volta, in questa tornata è stata l’indifferenza. E’ il solito meccanismo perverso del quorum, dove i contrari si trovano alleati degli indifferenti o di chi è stato impossibilitato a votare. Mantenere la soglia del quorum al 50% favorisce proprio questo sistema.
Da anni si levano in aria proposte di abolizione del quorum nel referendum abrogativo, o quantomeno di ridurlo al 30% degli aventi diritto. Altra proposta, un po’ provocatoria, è quella di sospendere il diritto di voto a chi diserta le urne per tre volte consecutive.
Certamente il non voto degli astensionisti cronici condiziona anche il comportamento dei sostenitori del No, che recandosi alle urne a votare No si ritroverebbero paradossalmente ad aiutare i sostenitori del Sì. Infatti a vincere alle urne è sempre il Sì.
Quello che si evidenzia, in particolare nel referendum di ieri, è un generale disinteresse degli italiani non solo per la politica, ma anche per l’attualità.
E’ stato osservato che il comportamento di alcuni importanti mass media è stato reticente e fazioso. Si è parlato poco e male del tema, e solo nell’ultimo periodo.
Memorabile è stato Gerardo Greco, conduttore di Agorà (Rai 3), che durante la sua condizione aveva detto che si votava in 9 regioni, salvo poi – dopo essere stato ripreso da Michele Emiliano, ospite in trasmissione – correggere il tiro sostenendo che in fondo a uno della Valle d’Aosta non è che gliene freghi molto delle trivelle in mare.
Sky Tg 24 non è stato da meno, facendo apparire tra le “breaking news” a scorrimento la notizia secondo cui si sarebbe votato in 9 regioni.
Restando con il dubbio se ci sono o ci fanno, stendiamo l’ennesimo velo pietoso sull’informazione nel nostro Paese.
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Fermo restando il censurabile comportamento dei media, va detto che chi ha voluto informarsi l’ha fatto, non era difficile. Bastava interessarsi. Eppure erano in tanti che fino all’ultimo non capivano cosa riguardasse il voto, cosa sarebbe successo con la vittoria del Sì.
E molti, pur ammettendo di essersi informati, hanno motivato la loro decisione di non votare con il “tanto non serve a nulla”, “tanto fanno sempre quello che vogliono loro”, “troveranno un modo per aggirare la legge”, o con lo pseudorivoluzionario “sono contro il sistema, quindi non vado a votare”.
Più che altro sembra un modo per giustificare il proprio disinteresse e la propria inerzia. Sarebbe dovuto accadere un incidente ad una piattaforma per scuotere le coscienze, come avvenne a Fusushima nel 2011, condizionando l’esito del referendum sul nucleare?
Forse in questo Paese si fa politica solo sull’onda del clamore.
In un Paese dove crescono i cosiddetti “lavoratori scoraggiati”, cioè le persone che hanno smesso di cercare lavoro perché non ci credono più, non c‘è da meravigliarsi se crescono anche gli estremismi, quello di chi ha smesso di informarsi e quello di chi sceglie la via antidemocratica.
Si sente molto spesso parlare della necessità di rivoluzione, su una poltrona davanti a un monitor o al tavolino del bar, ma quella vera (non necessariamente violenta) si lascia che sia qualcun altro a farla, senza nemmeno scomodarsi per esprimere una loro volontà con l’unico strumento di democrazia diretta che abbiamo.
Lo strumento del referendum abrogativo non funziona, non potrà funzionare fino a che la parte maggioritaria dei cittadini non inizia a interessarsi della Cosa Pubblica, ad informarsi quotidianamente, a confrontarsi con altri e a provare a fare qualcosa, a rimboccarsi le maniche, a fare qualcosa, anziché passare il tempo a lamentarsi e maledire i politici, senza far nulla. I cambiamenti non si ottengono con uno sterile lagnarsi.
E soprattutto non è con il classico spirito campanilistico che accompagna spesso i dibattiti nel nostro Paese – che assomigliano più al tifo da stadio che a discussioni costruttive – che si potrà ottenere qualcosa di buono.
“Una delle punizioni che ti spettano per non aver partecipato alla politica è di essere governato da esseri inferiori.”
Questo diceva Platone nel V secolo a.C. e vale ancora oggi.
La partecipazione alla politica non è solo eleggere, o essere eletti, o tesserarsi. Partecipare significa informarsi, farsi delle domande, cercare delle risposte, confrontarsi con altri, agire con altri, anche fuori da un partito.
I governi degli ultimi anni sono il risultato di tutto questo. La causa non è all’esterno, la causa siamo noi. Se cerchiamo un responsabile – citando un passo della “graphic novel” V per Vendetta – “non c’è che da guardarsi allo specchio”.
Non ci meriteremo di meglio fino a quando ogni cittadino non riprenderà in mano la sua fetta di questo Paese, fino a che lascerà una delega in bianco a chi lo governa.