Popolazioni in lotta contro le grandi opere unite nella ‘Giornata internazionale contro le grandi opere inutili e imposte, in difesa del pianeta’. Cosa spinge questi cittadini a rifiutare queste opere, nonostante le promesse di prosperità e sviluppo?
Sabato 8 dicembre si è svolta a Melendugno la manifestazione a contro TAP e tutte ‘le grandi opere inutili e imposte’, in concomitanza con la manifestazione No TAV a Torino e altre manifestazioni che si sono tenute in tutta Italia e non solo.
Erano in migliaia a sfilare, dal centro cittadino alla zona del PRT, con striscioni, cori, famiglie con bambini, giovani e anziani, interventi al microfono e un elicottero delle forze dell’ordine che sorvolava a bassa quota sui manifestanti.
Al corteo erano presenti anche i comitati No TAP di Brindisi e quelli contro Cerano e Ilva, quest’ultimi accorsi da Taranto. Tra questi il comitato Genitori Tarantini. Tra le altre cose, i manifestanti hanno anche consegnato i zerbini con la scritta No TAP davanti alla sede di TAP e della Protezione Civile di Melendugno.
A Torino erano dai 50 ai 70 mila cittadini, senza bandiere di partito, in risposta alla manifestazione “Sì TAV” del 17 novembre di Forza Italia, a cui hanno aderito anche esponenti di Lega e PD, decisamente meno partecipata rispetto a quella No TAV.
Altre manifestazioni si sono svolte a Venosa, Niscemi, Padova, Sulmona, mentre solidarietà ai No TAP è stata espressa dal Kurdistan, dalle “compagne terrone” delle YPJ International (Unità di Protezione delle Donne, unitesi alla lotta del popolo curdo contro l’oppressione turca e il terrorismo dell’Isis).
Tutte queste iniziative rientravano nella ‘Giornata internazionale contro le grandi opere inutili e imposte, in difesa del pianeta’. L’attenzione dei media nazionali si è concentrata principalmente sui gravissimi fatti della discoteca di Corinaldo, in cui hanno perso la vita 6 persone, sulla manifestazione della Lega a Roma e sulle proteste di “gilet gialli” a Parigi.
Un po’ di spazio è stato dato anche alla manifestazione di Torino, mentre le iniziative di Melendugno e delle altre città contro le grandi opere non sono state considerate degne dei palinsesti dei TG nazionali.
Perché la lotta contro le grandi opere?
Intere comunità sono in lotta contro alcune opere, cittadini di ogni estrazione sociale e culturale, giovani e meno giovani, attivisti e cittadini comuni, impegnate in un duro braccio di ferro contro lo Stato e le grandi società interessate al progetto, in una battaglia che arriva a durare anni, se non decenni.
Chi glielo fa fare? Perché sono in lotta? Sono persone che rifiutano il progresso, che non colgono l’occasione di sviluppo connesse a queste grandi opere. Rifiutano il cambiamento oppure sono vittime della sindrome “ninby” (non nel mio giardino): favorevoli all’opera, purché si faccia altrove. La loro opposizione è solo ideologica e dicono “no” a tutto.
Insomma, sono persone incoscienti e ignoranti, che non riescono a comprendere che l’opera è buona, non è dannosa, e porta tanti benefici. Oppure sono solo accecati dall’ideologia, senza comprendere realmente l’opera.
Sono questi gli argomenti più battuti dai sostenitori e dagli sponsor della grande opera, che minimizzano e ridicolizzano le reali ragioni dell’opposizione, soprattutto per oscurare la loro voce. Ma, al contrario di quanto sostenuto dai loro detrattori, questi cittadini sono organizzati e informati.
Il problema principale di queste grandi opere è che coinvolgono gli interessi e la vita di decine o centinaia di migliaia di persone, modificano radicalmente i territori che le ospitano, con impatti importanti sull’economia, sulla società, sulla geologia, sull’ecosistema e sull’ambiente in generale.
Coinvolgono un gran numero di interessi collettivi ma anziché, per queste ragioni, essere sottoposte a procedure che garantiscano un’effettiva partecipazione degli enti locali e delle organizzazione rappresentative della popolazione e degli interessi diffusi, ed una maggiore ponderazione dei possibili impatti negativi e di tutti gli interessi coinvolti, queste opere beneficiano di agevolazioni procedurali e di un processo decisionale accentrato nelle mani del Governo di turno, che può scavalcare le volontà espresse da Regioni ed enti locali, oltre che delle popolazioni.
Opera strategica e di preminente interesse nazionale
Tutto questo è favorito dalla normativa vigente nel nostro Paese, che si mostra molto lontana dal concetto di democrazia partecipativa, nella cui direzione stanno andando diverse democrazie occidentali e non solo.
Definendo un’opera come “strategica e di preminente interesse nazionale”, il Governo decide di assoggettare a questa normativa speciale l’opera. Si tratta, però, di una scelta politica insindacabile e non è detto che quell’opera sia effettivamente strategica, o anche solamente di pubblica utilità.
Il caso TAP lo dimostra in maniera evidente. Grazie ad una serie di iniziative civiche intraprese da associazioni, cittadini ed enti del Salento, è emerso che nessun Ministero, nessun ufficio governativo, dispongono di studi, dati o di informazioni circa i benefici economici, occupazionali ambientali e sociali che l’opera porterebbe.
Eppure i pro-TAP continuano a sostenere che il gasdotto poterà minori costi in bolletta, sicurezza energetica, occupazione, sviluppo e prosperità al Paese intero, soprattutto al sud. Ma senza avere nulla in mano.
Lo Stato contro cittadini e altri pezzi dello Stato
Il risultato di questo approccio con i territori, in tema di grandi opere, è quello di alimentare dei drammatici conflitti sociali tra lo Stato con le società interessate al progetto, da un lato, e gli enti pubblici decentrati con le popolazioni, dall’altro. Lo Stato centrale contro altri pezzi di Stato, lo Stato contro parte del suo popolo, privato della sua voce e dell’effettività dei suoi diritti.
Si innescano, così, tanti focolai sparsi sul territorio che potrebbero unirsi in un grande incendio.
Questo situazioni di conflitto sociale sono costituiscono un fenomeno molto diffuso, soprattutto nei Paesi a democrazia “limitata”. E’ un cliché di quel fenomeno che va sotto il nome di estrattivismo, che consiste nello sfruttamento selvaggio dei territori con l’appropriazione privata o il consumo di risorse naturali uniti ad un condizionamento del normale funzionamento della democrazia, per favorire interessi economici privati (di solito delle multinazionali), e ad una repressione del dissenso delle popolazioni locali, anche con la forza.
L’errore da evitare quando si affrontano queste tematiche è quello di dare aprioristicamente torto a chi si oppone alla grande opera senza ascoltare le loro ragioni, privandoli anche della dignità di cittadini.
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